Il Convivio |
Il Convivio è un'opera composta da Dante nei primi anni dell'esilio, fra il 1304 ed il 1308.
La struttura originaria prevedeva un'introduzione generale e la presentazione ed il commento di quattordici canzoni, scritte dal poeta negli anni precedenti.
L'opera, interrotta al quarto trattato, presenta alcune importanti acquisizioni filosofiche e poetiche della maturità dantesca.
Dante esalta la razionalità che innalza l'uomo a Dio e pone al culmine di ogni itinerario intellettuale il sapere, facendo della scienza il termine di ogni esperienza terrena.
A tal fine imbandisce, quindi, in lingua volgare, un "convivio" del sapere, finalizzato, con il pane del commento, a nutrire tutti gli uomini.
- Nel trattato introduttivo Dante afferma che tutti gli uomini sono naturalmente desiderosi di sapere e che coloro che hanno mangiato del pane degli angeli, cioè delle scienze teologiche e filosofiche, non possono comunicare il loro sapere agli indotti.
- Il secondo trattato commenta nei due sensi, il letterale e l'allegorico, la canzone "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete" e chiarisce quali siano e quale valore abbiano i quattro modi possibili per interpretare le scritture poetiche.
A somiglianza dei passi biblici, infatti, i testi poetici possono essere interpretati in senso letterale, morale, allegorico e, infine, anagogico.
Il senso anagogico, o sovrasenso, consiste nel ricondurre il significato letterale del testo ad un significato più alto, che è in corrispondenza con la realtà sovrannaturale.
- Il terzo trattato commenta la canzone "Amor che nella mente mi ragiona", che, interpretata in senso letterale, ha per oggetto Beatrice, ma, interpretata in senso allegorico, espone le virtù della Filosofia, sole che illumina il mondo.
- Nel quarto trattato è commentata la canzone "Le dolci rime d'amor ch'i' solia
cercar ne' miei pensieri".
Contrastando l'opinione tradizionale, Dante sostiene che la vera nobiltà risiede nella gentilezza dell'animo. A questo proposito Dante analizza la definizione di nobiltà data da Federico II, quindi si domanda quali siano le radici dell'autorità imperiale, giungendo alla conclusione che esse stanno nella necessità, insita nella società umana, di giungere alla felicità universale.